Lo straordinario caso del dottor Auro e del signor Goldberger | Intervista
12 Gennaio 2022Per noi di WATCH INSANITY – rappresentati dal sottoscritto e dal fondatore Jacopo Giudici – che amiamo tanto l’estetica e la meccanica di un orologio quanto lo storytelling che ci sta dietro, incontrare Auro Montanari, alias John Goldberger – e per giunta a casa sua – è la chiusura del cerchio, come se Bukowski avesse potuto bere un goccio con il suo mito Hemingway all’Harry’s Bar o sulla Pilar, davanti alle coste dell’Avana. Conoscendolo, le diverse anime di Auro-Goldberger convivono molto più serenamente rispetto a quelle raccontate da Stevenson di Jekyll e Hyde. Auro, soprattutto, per sensibilità, esperienza sul campo e studio, ha una visione d’insieme, tra vintage e contemporaneo, che nel settore appartiene a pochissimi. Tant’è che molti marchi – e questa è una curiosità che quasi nessuno conosce – gli inviano in anteprima le loro novità o addirittura i prototipi per avere la sua valutazione-approvazione, tra design, funzionalità e prova al polso.
Non di poco conto, Auro è un italiano dal respiro realmente internazionale, avendo vissuto per parecchio tempo tra Bologna, Roma, Los Angeles e New York (e amando le seguenti località vacanziere: Saint Tropez, gli Hamptons, Malibu e Riccione, anche se per l’estetica di quest’ultima ci vuole pazienza, dice lui). E da bolognese doc, più che il comune amico Alberto Forchielli (altro bolognese dal respiro internazionale), per stile, savoir faire e inclinazione artistica, ricorda l’indimenticabile – per noi bolognesi e non solo – Giuseppe Gazzoni Frascara, imprenditore, presidente del Bologna di Roberto Baggio e galantuomo d’altri tempi.
Auro, lo sappiamo tutti, è un collezionista leggendario e con i suoi altrettanto leggendari libri d’approfondimento – qui l’elenco completo [ www.johngoldbergerwatches.com ] – è anche un eccezionale divulgatore della sua quarantennale passione per l’orologeria e vale almeno la pena citare l’ultima fatica: Time to Race. Watches and speed. Stories of men and machines, scritto insieme a Cesare Maria Mannucci, giornalista specializzato in motorsport e con l’autorevole prefazione di Piero Ferrari, figlio del leggendario “Drake” e memoria storica della Scuderia di Maranello.
Auro è appena iniziato un nuovo anno e noi da dove cominciamo la nostra intervista?
Dai marchi indipendenti. È grazie a loro se è arrivata un po’ di aria fresca nel settore perché fanno modelli più innovativi rispetto alle maison storiche. Inoltre con gli orologiai o i marchi indipendenti, dove c’è ancora il fondatore, succede come con l’arte contemporanea dove l’acquirente si affeziona all’artista e lo segue nel suo percorso acquistando diverse sue opere. E poi se parliamo dei pochi maestri che fanno loro stessi i propri orologi in questo caso l’appassionato impazzisce come capita nel mondo dell’automobile quando vai ad acquistare una Pagani. Con i grandi marchi questo contatto è andato perduto per sempre.
Vuoi sbilanciarti facendo qualche nome?
Quasi tutti lavorano sul classico reinventato. Allora ti cito Richard Mille, il solo che ha scelto l’innovazione pura, totale, andando decisamente oltre gli schemi tradizionali. È unico sia nei movimenti che nella tecnologia dei materiali. È decisamente figlio del terzo millennio. L’ho conosciuto di recente a Parigi per la realizzazione del secondo volume del libro Time to Race. Di Richard apprezzo anche la capacità di aver portato nell’orologeria la sua passione per le corse automobilistiche. Purtroppo (e sorride) di Richard Mille ne ho soltanto uno perché i prezzi sono esorbitanti. D’altronde con una produzione di 5mila esemplari all’anno è giusto che il valore si posizioni molto in alto.
Quali altri marchi sono nella tua collezione e che rapporto hai con questi marchi?
Più che l’elenco dei marchi posso dirti che nella mia collezione ci sono orologi belli, non banali e in condizioni eccezionali. Comunque, tra i tanti, possiamo almeno nominare Rolex, Patek, Omega e Cartier. Mi piacciono anche gli orologi al quarzo e quelli moderni, come i Casio. Molti marchi mi chiedono di fare un orologio insieme. Rispondo: no, grazie. Però mi piace dare una mano ai micro-brand meritevoli, anche facendo da testimonial, quindi mettendoci la faccia. Per i micro-brand meritevoli sì, per i grandi marchi no. Come dire: non voglio far parte della banda. Quando mi hanno cercato ho sempre rifiutato. I micro-brand li trovo davvero interessanti perché riescono a proporre soluzioni d’alta gamma a prezzi estremamente ragionevoli. Baltic e Furlan Marri, per esempio, possono contribuire all’avvicinamento dei giovani al collezionismo di orologi importanti. Mi piacciono anche le capsule del mio amico William Massena di Massena Lab, che tra l’altro ha una grande cultura sul vintage.
Cos’hai al polso e come definisci la tua collezione?
Oggi ho un Longines contemporaneo. È l’Heritage Classic Limited Edition per Hodinkee. 500 pezzi sold out. Anche con loro – intendo i ragazzi di Hodinkee – sono amico e ho fatto con piacere il testimonial. Di solito gli orologi che amo indossare di più sono i Cartier. E in assoluto l’orologio che ho portato di più è il Tank Cintrée in platino. A me di un orologio interessa l’estetica, come sta al polso, l’equilibrio delle dimensioni, i dettagli. In questo senso la mia collezione è fluida. Rivendo orologi che non mi piacciono più e ne acquisto altri. Il gusto cambia in funzione dell’età e dei tempi. Per esempio avevo una collezione importante di Daytona manuali, anche con quadranti Paul Newman, ma l’ho venduta quasi tutta, tenendo solo alcune versioni particolari, perché mi aveva stancato. La mia collezione è in evoluzione costante.
Come nasce l’impulso di collezionare?
Nel mio caso ho seguito l’esempio dei miei genitori, che collezionavano quadri, porcellane e mobili. Io li seguivo in giro per l’Europa nei vari show a tema. Annoiandomi ho trovato uno sfogo negli orologi, che alla fine degli anni Settanta, quando ho cominciato ad appassionarmi, non costavano tantissimo. Mio padre non era particolarmente appassionato di orologi ma per la comunione mi ha regalato un Omega vintage del 1957, che è il mio anno di nascita. Chissà, forse quello è stato un segno del destino…
Visto che la tua collezione è fluida, quali sono le fonti di approvvigionamento predilette?
Tendenzialmente non acquisto orologi nuovi. Quindi i player restano pochissimi: case d’asta, commercianti e collezionisti. Storicamente gli italiani nel commercio del vintage hanno sempre avuto un peso fondamentale, poi qualche tedesco, qualche americano, anche giovane, e qualcosa in Giappone e Hong Kong. Gli italiani rispetto agli stranieri hanno più conoscenza. Per quanto mi riguarda, mi affido a commercianti che conosco da una vita perché, se d’epoca, prima dell’orologio è più importante la fiducia che si ha nel venditore. Considerate che una volta poteva capitare di comprare con una certa incoscienza un orologio avendolo visto soltanto in bianco e nero su un fax senza nemmeno sapere il seriale. Perciò la fiducia nel confronto del venditore era tutto. Per me è ancora così.
Com’è cambiato il collezionismo da quando ti sei appassionato agli orologi?
La premessa da fare è che è cambiato il mondo e anche quello dell’orologeria. Oggi la produzione è inevitabilmente industriale ma, avendo delle aziende, lo apprezzo. È un arte anche l’industria. E Rolex e Omega eccellono nei loro prodotti industriali. La produzione di Rolex è arte. Il collezionismo è cambiato totalmente. Tanto per dire, quando ho cominciato io, il collezionismo serio era considerato soltanto quello degli orologi da tavolo o da tasca: Breguet e Patek di fine Ottocento e primi Novecento, gli unici che erano nei musei. Mentre c’è una questione storica che in futuro rischia di venire meno ed è un grande peccato: i concessionari ufficiali in Italia hanno il merito di aver fidelizzato la clientela italiana come in nessun altro Paese al mondo e difatti in Italia c’è sempre stato un numero molto più alto di concessionari ufficiali rispetto al resto del mondo. È per questo che l’italiano ha una cultura dell’orologio da polso di pregio che all’estero non c’è. Cultura che spesso ha influenzato il mercato. Il Royal Oak, per esempio, nasce perché quella tipologia di prodotto era richiesta proprio dal nostro mercato. Tant’è che i primi Royal Oak sono stati venduti da noi. Il fenomeno degli Swatch e del Daytona è ancora nostro. Oggi non è più così perché la ricchezza è altrove. Purtroppo la scelta diffusa dei grandi gruppi di privilegiare le boutique monomarca, pensate per clienti internazionali, rispetto ai concessionari ufficiali, più orientati sul rapporto con la clientela locale, impoverirà il rapporto con gli appassionati.
Auro è giunto il momento di farci uno scoop mondiale…
Fino a qualche anno fa tutti e quattro i 1518 in acciaio di Patek erano di italiani. Il primo è riapparso nel mondo degli appassionati da Pisa, a Milano, nel 1984, e l’ha comprato lo stilista Gimmo Etro per 12 o 15 milioni di lire, non ricordo la cifra precisa. Pisa, lo stesso giorno e allo stesso prezzo, ne ha venduto uno anche in oro rosa. Rispetto a oggi sono cifre ridicole, ma erano comunque importanti: allora in Italia, che negli anni Ottanta stava vivendo un nuovo boom economico, con 30 milioni si comprava un appartamentino. Quindi, all’epoca, per comprare un Patek in acciaio bisognava essere dei pionieri perché i Patek, per definizione, erano in oro. Poi un 1518 in acciaio è andato in asta nel ’90 a 100 milioni di lire. Successivamente da Antiquorum è stato battuto a 500mila franchi svizzeri, poi più avanti a 2 milioni di euro. A quella cifra mi è stato offerto da un commerciante italiano, un caro amico, ma io l’ho rifiutato perché era già troppo iconico e caro per i miei gusti. Ovviamente ho commesso un errore, visto che nel 2016 è stato battuto all’asta a 10,5 milioni di franchi e oggi a chissà quanto…
Il tuo rapporto con il sogno erotico odierno rappresentato dal trittico Daytona Cerachrom, Nautilus e Royal Oak Jumbo?
Complessivamente non ho quasi mai acquistato un orologio nuovo, sempre usato, ma di sicuro non comprerei mai un Daytona al doppio del listino. Mentre i primi Nautilus negli anni Settanta erano troppo cari, costavano come tre Daytona in acciaio. Così ho aspettato l’80 o ’81 per acquistarlo usato a 2 milioni di lire. Contemporaneamente ho preso anche il Royal Oak e al polso lo preferisco come linea rispetto al Nautilus. Il Royal Oak, a mio avviso, nell’equilibrio estetico del quadrante, tiene molto meglio le complicazioni rispetto al Nautilus. Tra l’altro ho avuto il piacere di conoscere personalmente Gerald Genta. Definirlo un designer è riduttivo. È stato un grande artista.
Quali designer ti piacciono oggi?
Due su tutti. Fabrizio Buonamassa, direttore del Bulgari Watches Design Center, bravissimo anche nell’utilizzo dei materiali e che difatti ha realizzato l’azzeccatissimo Octo Finissimo. E Giampiero Bodino, che conosco bene: anche lui ha una mano eccellente.
Come lo vedi il futuro del collezionismo?
Vado controcorrente: un giorno potrebbe tornare l’orologio da tasca. Il giovane collezionista internazionale portando l’iWatch potrebbe mettersi in tasca un pluricomplicato di grande valore intorno ai 100-200mila euro. Quindi con cifre decisamente competitive rispetto agli attuali valori degli orologi da polso si potrebbe divertire con la meccanica sopraffina di questi oggetti dal grande fascino. Poi direi che il futuro prossimo è del neo-vintage, orologi che hanno dieci o vent’anni. E mi sbilancio dicendo che come successo l’Octo Finissimo sarà il nuovo Royal Oak e anch’esso, come l’Audemars Piguet, a livello estetico, tiene benissimo tutte le complicazioni. Detto questo punto sempre su Rolex, numero uno per tutto: dalla produzione al marketing, dall’affidabilità fino al servizio post-vendita. Dei Rolex contemporanei non mi mi dispiace il Pepsi. Degli storici adoro gli Ovetti, sono i più belli di sempre e il collezionismo degli anni Ottanta è nato con loro.
Hai citato il Daytona al doppio del listino. Qual è il tuo commento sulle liste d’attesa?
C’è poco da fare. La gente ha voglia di investire in beni durevoli e ha visto l’orologio come forma d’investimento. I prezzi degli orologi crescono sempre e come in Borsa quando sale, la gente comune compra. Non si producono abbastanza orologi per soddisfare la richiesta del mondo e ovviamente le case svizzere non sono stupide ad aumentare la produzione perché svaluterebbero il prodotto. D’altronde oggi il Daytona in acciaio comprato al doppio del listino anche se fosse una bolla che prima o poi scoppierà, non credo che registrerà una discesa di prezzo importante. Questo per tre motivi: il mercato è destinato a crescere ancora, i compratori nel mondo sono sempre di più e il collezionista di orologi, come lo intendo io oppure il nostro amico Sandro Fratini, non esiste più, adesso sono soltanto investitori.
Chi è Auro oltre al leggendario collezionista di orologi?
Sono figlio di un imprenditore e a mia volta seguo le aziende di famiglia. Mi piacciono gli oggetti decorativi per la casa e oggi mi sento più editore specializzato in orologeria che collezionista di orologi. Da collezionista non riuscivo a trovare un libro che descrivesse gli orologi in maniera corretta da collezionista esigente. Allora mi ci sono messo io, facendo dieci libri e occupandomi di tutto, foto comprese, arrivando ad avere un archivio di 120mila immagini.
Quali saranno le tue prossime fatiche editoriali?
Adesso sto ultimando Time to Race 2. Poi arriverà il secondo volume di 100 superlative Rolex Watches, che sarà una edizione completamente nuova di altri cento orologi rispetto alla prima, che è andata esaurita da tempo.
Auro, da storyteller, chiudiamo con un finale commovente e indimenticabile…
Certo (Auro ride)! È vero che come uomo, collezionista ed editore, amo lo storytelling e anche in orologeria, come nella vita, lo trovo fondamentale. Adesso, finalmente, lo stanno imparando anche le case. Ti dico questo: l’aspetto più importante del mio percorso nell’orologeria non è la destinazione, ma il viaggio che ho fatto, con i personaggi che ho incontrato. E posso concludere dicendo che è stato un viaggio meraviglioso!
By Michele Mengoli
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